di Bernardino Casadei per ASSIFERO
Dovrebbe ormai essere a tutti evidente come oggi la sfida più
importante sia quella di ricostruire un nuovo welfare e che esso dovrà
necessariamente poggiare sulla solidarietà e sulla sussidiarietà. Si
tratta di una sfida che non ci viene imposta solo dal senso di giustizia
che dovrebbe guidare ogni nostro agire, ma anche dalla consapevolezza
di come anche lo sviluppo economico dipenda dalla crescita del privato
sociale. È questo un settore, infatti, che non si limita a distribuire
ricchezza come alcuni potrebbero pensare, ma che oltre a generare valore
che si concretizza nei posti di lavoro che quotidianamente crea, esso
può dare un contributo fondamentale nella creazione di quel capitale
sociale che, a detta di tutti, è un fattore imprescindibile affinché lo
Stato e il mercato possano effettivamente funzionare. Chi crede che il
welfare sia un lusso che non ci si può concedere in momenti di crisi è c
hiaramente ancorato a delle teorie economiche che la realtà si è da
tempo incaricata di smentire.
Naturalmente creare un nuovo welfare non può significare limitarsi ad
integrare i tagli dei trasferimenti pubblici con nuove entrate, siano
esse il lavoro dei volontari o i contributi della filantropia
istituzionale. Una simile illusione oltre a non fare i conti sulle
risorse necessariamente insufficienti che questi mondi sono in grado di
mobilitare, non ne coglie l'essenza e rischia quindi di inaridire la
fonte che è in grado di generarli. Strumentalizzare la generosità o
anche subordinarla alle esigenze produttive rischia infatti di
distruggerla e gli eventuali risparmi che potranno essere conseguiti nel
breve verranno pagati a caro prezzo, come l'involuzione della
cooperazione sociale ci insegna.
Creare un nuovo welfare significa dotare la nostra società di
istituzioni che favoriscano le relazioni umane, senza le quali la
solidarietà e la sussidiarietà non possono manifestarsi ed è questo il
vero compito che attende il privato sociale. La pur importante
produzione di beni e servizi da parte di questo settore deve essere
considerata la conseguenza e non il fine dell'operare degli enti non
lucrativi aventi finalità d'utilità sociale. Solo sfruttando la loro
naturale propensione a creare legami e a generare fiducia sarà possibile
sfruttare pienamente le loro potenzialità e quindi porre le basi per
quella coesione sociale che è condizione imprescindibile non solo per la
crescita morale e civile, ma anche per quella economica e sociale.
Da queste premesse dovrebbe emergere con chiarezza la necessità da
parte degli enti d'erogazione di ripensare radicalmente il proprio
ruolo. Se, per lungo tempo, le fondazioni hanno creduto che il loro
compito fosse incrementare la produttività degli enti non profit,
sperimentare approcci innovativi che altri avrebbero poi dovuto
replicare, aumentare le dimensioni operative delle non profit di
successo, oggi dobbiamo ammettere che questi approcci hanno dato
risultati inferiori alle aspettative. Benché siano stati sostenuti
progetti estremamente interessanti, troppo spesso, a livello di sistema,
la condizione generale è peggiorata.
Forse un modo più efficace per usare le limitatissime risorse di cui
la filantropia istituzionale dispone è quello di farsi catalizzatore
delle energie positive presenti nella nostra società, energie però che
quest'ultima non è in grado di mobilitare. Se invece di lamentarsi per
tutti i problemi che ci affliggono, concentrassimo le nostre energie nel
valorizzare le risorse che ci sono, potremmo forse dare un contributo
ben più rilevante al miglioramento della qualità della vita delle nostre
comunità. Esistono infatti giacimenti enormi di energie rinnovabili che
una società che ha pensato di potersi sviluppare solo trasformando i
vizi privati in pubbliche virtù lascia inutilizzati e che il privato
sociale potrebbe finalmente valorizzare.
Si pensi solo alle donazioni che potrebbero essere mobilitate. Da un
lato esistono ingenti patrimoni di famiglie prive di eredi diretti,
dall'altro il fatto che il nostro Paese abbia un coefficiente di Gini
che misura la disuguaglianza sociale simile a quello degli Stati Uniti
indica come vi siano, pur in mezzo alla crisi presente, un numero
consistente di persone che, se opportunamente sensibilizzate e
coinvolte, hanno sicuramente i mezzi per contribuire al bene comune. Da
questo punto di vista il fundraising ha però mostrato tutti i suoi
limiti. L'obiettivo non deve essere quello di raccogliere fondi, ma
piuttosto quello di aiutare le persone a donare. Si potrebbe pensare che
questa sia una distinzione di lana caprina in quanto il risultato
finale è comunque una donazione. In realtà nel primo caso la tentazione a
strumentalizzare il donatore e a preoccuparsi principalmente dei suoi
soldi è forte, mentre nel secondo caso l'obiettivo è ai
utare il donante a donare, godendo al massimo di tutti i benefici
collegabili a tale atto. Il fatto che due terzi dei donatori che
allegano le proprie donazioni alla dichiarazione dei redditi le
detraggono benché sarebbe per loro sicuramente più conveniente dedurle, è
un indicatore di come l'attenzione nei confronti dei donatori sia
ancora molto limitata, tanto da non aiutarli nemmeno a sfruttare al
meglio i pur magri benefici fiscali attualmente disponibili.
La diffusione dell'intermediazione filantropica e il ruolo che in
essa possono svolgere le fondazioni di comunità e il recente costituito Comitato per il Dono,
potranno dotare il nostro Paese di un'infrastruttura sociale in grado
di mettersi al servizio dei donatori, permettendo loro di vivere
pienamente tutti i benefici collegati alla donazione. Si tratta di
trasformare il dono da un costo, un onere, un dovere, una forma di
tassazione volontaria, in un'opportunità in grado di dare una risposta
convincente ad alcuni dei bisogni fondamentali della persona umana: il
bisogno di identità e di dare un senso alla propria esistenza, quello di
vivere delle relazioni veramente umane perché non strumentali, quello
di sperimentare delle emozioni autentiche in grado di illuminare la
propria esistenza. Si tratta di bisogni profondamente radicati nella
natura umana e ai quali la società in cui viviamo si limita ad
offrire delle illusioni o dei palliativi, mentre tutto coloro che
vivono concretamente l'esperienza del dono possono testimoniare come
essa sia estremamente feconda che può renderci felici, ben più dei tanti
beni di consumo che spesso finiscono per degradarci.
La filantropia istituzionale può svolgere un ruolo importante anche
nel dare una risposta ad una delle sfide più importanti per la nostra
società: come valorizzare i giovani, evitando che questi da risorsa si
trasformino in problema. Bisogna offrire loro opportunità, avere il
coraggio di scommettere su di loro, metterli in condizione di
sperimentare le loro idee. Troppo spesso invece i progetti per i giovani
sono pensati e realizzati da adulti. Questi ultimi potranno forse
essere più efficienti, ma raramente potranno essere più efficaci.
Inoltre non bisogna mai dimenticare il significato educativo nello
sviluppo delle proprie competenze e della stima di sé che la gestione
diretta di un progetto può dare a questi ragazzi, i quali, nel contempo,
potranno diventare più consapevoli dei bisogni che contraddistinguono
la comunità in cui operano. Infine, può essere opportuno ricordare come
il privato soc
iale possa diventare, soprattutto in questo momento storico,
un'importante opportunità di lavoro.
Il modello della Youth Bank, sperimentato per la prima volta in Italia dalla Fondazione Comasca,
in cui giovani sono chiamati e selezionare progetti d'utilità sociale
presentati da loro coetanei, è sicuramente una modalità che si sta
rivelando feconda e potenzialmente in grado di lasciare un segno. Se,
come del resto sta già avvenendo, gli enti d'erogazione dovessero poi
dare la loro disponibilità a sostenere per alcuni anni le idee più
promettenti, quelle che potranno conseguire una propria sostenibilità
economica, allora sarà forse possibile innescare un circolo virtuoso in
grado di dare un contributo importante alla crescita della società
civile.
La filantropia può anche svolgere un ruolo importante nello sviluppo
delle tanto invocate reti. Bisogna però essere consapevoli che ciò non
può avvenire semplicemente erogando dei contributi supplementari ai
progetti in rete, dato che troppo spesso queste si realizzano solo sulla
carta. Affinché le sinergie possano veramente manifestarsi è
necessario, da un lato, promuovere lo sviluppo di una visione comune e,
dall'altro, creare le condizioni affinché si rafforzino la conoscenza,
il rispetto reciproco e quella fiducia senza la quale le relazioni
finiscono necessariamente per diventare strumentali e poco feconde.
La sperimentazione dell'impatto collettivo, spesso promosso grazie
agli enti d'erogazione, sta mostrando come un approccio che favorisca
l'elaborazione di un'agenda comune in cui tutti i partecipanti
condividono la visione e la missione, permetta di individuare indicatori
condivisi, crei le condizioni per il coordinamento fra le varie
attività, così che queste possano rinforzarsi mutualmente, stimoli una
comunicazione continua fra i partecipanti e la comunità nel suo
complesso, possa coinvolgere centinaia di realtà provenienti da tutti i
settori e conseguire risultati veramente notevoli. L'esperienza però
insegna come un simile approccio implica un investimento di lungo
periodo e la creazione di una struttura di supporto che garantisca le
condizioni per la collaborazione.
In una società dispersiva come la nostra non è però più possibile
dare per scontato che la gente si conosca e collabori autonomamente. Per
questo è necessario il contributo da parte di un soggetto che abbia
come unico fine quello di aiutare i partecipanti a elaborare una visione
comune senza cercare di imporre una propria agenda. Gli enti
d'erogazione, oltre a mobilitare le risorse necessarie per creare una
struttura di supporto che abbia come fine quello di garantire le
condizioni per la collaborazione, possono svolgere un ruolo fondamentale
nell'aiutare i partecipanti a superare una certa diffidenza reciproca
che, dobbiamo ammetterlo, è abbastanza diffusa nel nostro settore.
L'essere indipendenti, neutrali e in grado di mobilitare risorse
economiche può permettere loro di dare un contributo fondamentale alla
sperimentazione, anche nel nostro Paese di un approccio che sta già
dando dei risultati molto positivi.
Per concludere se gli enti d'erogazione vogliono sfruttare le
opportunità che la presente crisi offre ed evitare di essere
strumentalizzati da chi mira solo ai loro soldi è indispensabile essere
strategici ossia darsi degli obiettivi, individuare una strada per
conseguirli e dotarsi di indicatori che aiutino a capire se
effettivamente si sta andando nella direzione corretta. In realtà il
compito è forse meno difficile di quanto si possa immaginare.
L'obiettivo è evidente: creare un nuovo welfare fondato sulla
solidarietà e sussidiarietà, la strada è quella della valorizzazione
delle energie positive presenti nella nostra società e del rafforzamento
dei legami comunitari. Non manca che l'elaborazione di alcuni
indicatori per potersi tuffare in un'avventura, certo difficile, ma che
potrebbe permettere agli enti d'erogazione i affermare una loro identità
capace di contribuire a realizzare qualcosa di cui tutti
oggi sentono un così evidente bisogno, ma nessuno, fino ad ora, sembra
in grado di iniziare.
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