Cos’è una fondazione di comunità?
È tendenzialmente un intermediario filantropico.
Un intermediario filantropico è una specie di ponte che si pone fra coloro che hanno risorse finanziarie e vorrebbero fare delle cose belle per la loro comunità da un lato e, dall’altro, le organizzazioni senza finalità di lucro che possono concretamente realizzare queste cose.
Questa è la base per capire cosa sia una fondazione di comunità.
Ma quali sono gli elementi fondamentali della sua struttura?
Innanzitutto è importante che il consiglio di amministrazione di una fondazione di comunità sia un consiglio in grado di riflettere l’intera comunità, di riflettere le diverse aree geografiche presenti in un determinato territorio come anche di riflettere le diverse culture, le diverse categorie economiche e sociali, le diverse entità che vi operano.
Un’altra caratteristica fondamentale è che essa opera in un territorio ben definito. Questo è un elemento che la contraddistingue rispetto ad altre forme di intermediari filantropici. Si tratta di enti generalisti la cui competenza è data dalla conoscenza di una determinata comunità e non dall’approfondimento di determinate tematiche (l’infanzia, la salute, l’ambiente, ecc.).
Essa è inoltre un soggetto indipendente. È molto importante che questa fondazione sia vissuta e pensata come un soggetto indipendente. Essa non deve essere al servizio né di una particolare amministrazione, né di un particolare donatore, né di un particolare gruppo di enti non profit. È un soggetto che è e deve essere indipendente da tutte queste realtà per poter conseguire le proprie finalità.
Cosa fa?
Una delle sue attività principali è quella di accumulare e poi gestire un patrimonio finalizzato a progetti per il bene comune. Questa è l’attività principale di una fondazione di comunità. Per far questo una fondazione di comunità eroga servizi ai donatori, principalmente permettendo loro di costituire fondi con finalità specifiche e assistendoli nel perseguimento dei loro obiettivi filantropici. Donare è infatti più difficile di quanto si possa pensare, dato che non è affatto semplice individuare le soluzioni migliori e gli enti in grado di realizzarle. Ci sono anche molti ostacoli da superare, di tipo burocratico, ad esempio. Bisogna poi avere garanzie su come il proprio contributo verrà utilizzato e confrontarsi con una normativa fiscale non sempre chiara. Sono questi problemi che impediscono a tante persone di donare e quindi di fare qualcosa di bello, di cui essere fieri.
L’idea che sta alla base della filantropia di comunità è che il dono sia qualcosa di cui abbiamo bisogno come persone e che la società in cui viviamo spesso non ci aiuta a sperimentare questa dimensione fondamentale della nostra dignità.
Abbiamo bisogno del dono per stabilire relazioni veramente umane con il nostro prossimo, abbiamo bisogno del dono per dare un senso alla nostra esistenza. E questi sono bisogni ancora più forti dei bisogni primari. Sono dei bisogni molto diffusi, ma a cui la nostra società non sembra in grado di elaborare risposte adeguate. Ebbene se non c’è qualcuno che ci aiuta a vivere questa dimensione, noi rischiamo di non sperimentarla pienamente con effetti negativi per noi stessi e per la comunità in cui viviamo, perché chiaramente una comunità senza dono è una comunità disgregata, è una comunità in cui ognuno è chiuso in sé stesso, atomizzato e quindi, alla fine, privo della sua dignità.
Tendenzialmente queste fondazioni operano principalmente erogando contributi a enti non profit. In alcuni casi gestiscono progetti in proprio. Ad esempio, le fondazioni di comunità tedesche gestiscono abbastanza spesso dei propri progetti. Personalmente, però, sconsiglio questo comportamento. La gestione da parte di una fondazione di propri progetti rischia di avere almeno due conseguenze negative. Innanzitutto gli altri enti non profit possono vedere nella fondazione non più una risorsa, ma un concorrente. Invece di raccogliere risorse per l’intero settore, essa finirà necessariamente per indirizzare le risorse verso i suoi progetti. Rischia perciò di crearsi una situazione di conflittualità con quelli che sono i principali partner delle fondazioni di comunità, ovvero le organizzazioni non profit.
Inoltre questo comportamento potrebbe ostacolare i rapporti coi donatori, dal momento che la gestione diretta di progetti impedisce alla fondazione di presentarsi come un partner neutrale, un soggetto che può dare garanzie, perché non ha interessi propri. La fondazione si troverà invece in un chiaro conflitto di interessi. Se essa non ha propri progetti essa può effettivamente porsi come un soggetto neutrale che può dare quei consigli di cui il donatore ha bisogno per perseguire le proprie finalità filantropiche, in caso contrario diventerà difficile distinguerla dagli altri enti nonprofit.
Infine, grazie alle loro caratteristiche, queste fondazioni possono svolgere altri ruoli che trascendono la loro tradizionale attività di raccolta fondi ed erogazione. Sempre più spesso esse diventano dei motori di sviluppo in quanto sono in grado di catalizzare le energie dei soggetti più diversi e generare quindi delle feconde partnership. Questa capacità di relazionarsi con le varie realtà presenti in ogni comunità è empiricamente dimostrata anche dalle statistiche delle donazioni raccolte da questi enti in Lombardia, dalle quali è possibile rilevare come le donazioni si dividono in parti tendenzialmente uguali tra persone fisiche, società commerciali, enti privati ed enti pubblici.
Questo è un indicatore della loro capacità di porsi come dei ponti, in grado di mettere assieme risorse e competenze diverse e quindi di realizzare progetti che altrimenti non sarebbe stato possibile sviluppare.
Questa capacità di mettere assieme le realtà più diverse dipende naturalmente anche dal loro essere enti erogatori, ossia enti in grado di mettere sul piatto risorse economiche con le quali realizzare le attività che i soggetti coinvolti individueranno come opportune per la crescita della propria comunità.
Alla base del successo della filantropia di comunità è la convinzione che partire dai problemi, i quali sono sempre tanti e sempre superiori alle risorse disponibili, genera necessariamente un sentimento di sconforto. Se, invece di guardare ai problemi, concentriamo la nostra attenzione sulle risorse presenti nella nostra comunità che troppo spesso non vengono pienamente valorizzate, allora non possiamo non scorgere infinite opportunità. In ogni comunità ci sono tantissime energie che spesso vengono sprecate, rimangono inutilizzate o addirittura si trasformano in comportamenti asociali. Piuttosto che piangersi addosso bisogna lavorare per catalizzarle.
Questa è la vera sfida. Se infatti riuscissimo veramente a mettere in circolo tutte queste risorse, probabilmente non solo i problemi sarebbero di meno, ma anche la nostra vita diventerebbe più bella. Questo è qualcosa di esaltante, perché allora non ci sono più i problemi che ci saltano addosso e che ci sommergono, ma delle opportunità che possiamo cogliere.
Questo è un po’ il fondamento stesso della filantropia di comunità e la ragione del suo successo in Italia e nel mondo.
Le fondazioni di comunità sono state sviluppate nella loro forma moderna nell’esperienza anglosassone: sono nate negli Stati Uniti, si sono presto diffuse in Canada, poi sono arrivate nel Regno Unito e solo più recentemente, diciamo negli ultimi 10 anni, hanno iniziato a diffondersi nel resto del mondo. Oggi sono tanti Paesi, anche molto diversi tra loro, in cui queste fondazioni esistono. Paesi così diversi come il Kenia e la Germania, l’India, l’Australia o il Giappone hanno le loro fondazioni di comunità. Ultimamente si stanno diffondendo anche in Brasile e in altri Paesi dell’America latina, realtà in cui, con l’eccezione del Messico, l’idea non sembrava riuscire svilupparsi. Infine sono sorte le prime fondazioni di comunità nei Paesi islamici.
In questo movimento è importante notare come da un punto di vista patrimoniale l’Italia ha già raggiunto il quarto posto, dopo USA in cui le fondazioni di comunità gestiscono oltre 51 miliardi di dollari, il Canada, 2 miliardi e mezzo, il Regno Unito 330 milioni di dollari. Le fondazioni italiane infatti alla fine del 2007 avevano già accumulato un patrimonio di 250 milioni di dollari.
Le fondazioni in Italia sono tutte concentrate nel nord. Già una regione, la Lombardia, è quasi completamente coperta da fondazioni di comunità. Ve ne sono poi in Valle d’Aosta, in Piemonte: le province di Novara e Verbania oltre al quartiere di Mirafiori a Torino, in Liguria: la provincia di Imperia e il ponente savonese, nel Veneto: le province di Vicenza e di Venezia, dove ce ne sono addirittura quattro.
Oggi vi è una speranza concreta che questa tipologia di fondazioni si possa diffondere anche nel resto del Paese. L’esperienza che ci narrerà il dott. Vietri mostra come presto avremo una fondazione di comunità in provincia di Salerno.
Per quel che riguarda il progetto della Fondazione Cariplo, quello che ha introdotto il concetto in Italia, alla fine del 2007 le 15 fondazioni promosse dalla fondazione lombarda avevano accumulato un patrimonio di 171 milioni di euro. Importante notare come nel 2007 siano stati erogati 20 milioni di euro in circa 2000 progetti e soprattutto come in quell’anno siano state raccolte oltre 3.000 donazioni per quasi 11 milioni e mezzo.
Sono questi dati che dimostrano come l’idea funzioni. Si tratta di un risultato molto importante dato che, anche in Fondazione Cariplo, molti erano gli scettici. La si considerava come un’ipotesi impossibile. Tanti dicevano “figuriamoci se la gente dona…”, “è una cosa per americani…”. Questi dati dimostrano invece che di gente disponibile a donare ce ne è più di quello che si pensi. Basta aiutarli a realizzare questi valori, perché sia possibile catalizzare risorse molto importanti e indirizzare verso il bene comune una parte dell’enorme trasferimento intergenerazionale di ricchezza a cui stiamo assistendo.
La ragione principale per cui la gente non dona è che nessuno glielo chiede, cioè che nessuno offre loro opportunità concrete di donare. Ed è evidente che se nessuno glielo chiede non doneranno mai. La presenza concreta di questa infrastruttura è servita a dimostrare in modo concreto che la disponibilità a donare esiste. Ed esiste paradossalmente nelle realtà più povere. Sono proprio le realtà più povere quelle in cui si riesce a raccogliere di più, anche in termini assoluti.
Queste fondazioni sono realtà molto flessibili che possono servire a perseguire una pluralità di obiettivi. Proprio questa flessibilità spiega come esse si siano potuto sviluppare anche in Paesi molto diversi. Naturalmente ciò le ha portate a generare delle proprie peculiarità.
Quando sono nate, l’idea principale era quella di creare il “libretto di risparmio” della comunità. Cioè di creare un patrimonio flessibile che potesse essere utilizzato per affrontare i bisogni nuovi ed emergenti della comunità. Un qualcosa che potesse subito essere mobilitato se c’era qualcosa di nuovo, se c’era una emergenza sociale nuova. Grazie a questo “libretto di risparmio” ogni singola comunità avrebbe potuto prosperare ed affrontare i momenti di difficoltà in modo efficace.
Soprattutto negli ultimi 20 anni questo modello si è evoluto e si è trasformato in una vera e propria banca filantropica, che offre, oltre al “libretto di risparmio”, il conto corrente e tutta una serie di servizi ai donatori, anche molto sofisticati. In questo modo le fondazioni di comunità aiutano i donatori a sfruttare al meglio le loro risorse per perseguire le loro finalità filantropiche.
Nell’Est Europa le fondazioni di comunità sono nate dopo il crollo del Muro di Berlino, e il principale obiettivo era quello di infrastrutturale la società civile, perché in quei Paesi era chiaro che, dopo il regime socialista, non esisteva una vera e propria società civile, in quanto tutti i corpi intermedi erano stati praticamente distrutti. L’obiettivo principale di queste fondazioni è stato quindi quello di creare le condizioni per la rinascita e la riscoperta dei valori della società civile.
Nel Regno Unito sono molto spesso utilizzate dal Governo centrale per erogare contributi di modeste entità principalmente a tutta una serie di soggetti con cui la pubblica amministrazione fa fatica a relazionarsi direttamente, per esempio agli immigrati. Proprio in questi ultimi mesi il governo britannico ha deciso di utilizzare la rete delle Fondazioni di comunità per gestire le risorse che esso intende destinare a favore dell’infanzia abbandonata.
In Irlanda del Nord la locale fondazione di comunità ha svolto un ruolo fondamentale nel superare i conflitti tra cattolici e protestanti. Per lungo tempo ha svolto un ruolo estremamente importante per ricreare la comunità che, come è facile immaginare, era estremamente frantumata da conflitti reali e spesso sanguinosi, gestendo anche le risorse che l’Unione Europea aveva destinato a tale fine.
In Germania le Fondazione di Comunità hanno acquisito un grande ruolo e il sostegno di tutte le autorità pubbliche a cominciare dal Presidente federale, in quanto democratizzano la filantropia. Infatti se un donatore non ha almeno 5 milioni di euro è inutile pensare di costituire una fondazione, in quanto si trasformerebbe presto in una manomorta. Dato che le persone che hanno almeno 5 milioni di euro per crearsi una fondazione sono poche, per molto tempo la filantropia è stata vissuta come qualcosa che poteva interessare esclusivamente pochi ricchi.
Le fondazioni di comunità, al contrario, permettono, anche a chi ha mezzi molto modesti, ma vuole contribuire al bene comune, di crearsi un proprio fondo e utilizzare la fondazione stessa per gestire in modo professionale ed efficace le proprie attività filantropiche.
È anche possibile creare dei fondi d’erogazione, ossia dei fondi da cui far transitare la propria attività di beneficenza annuale, opportunità che non necessità di alcun capitale e di cui io stesso ho approfittato.
In Italia le fondazioni di comunità sono state utilizzate principalmente dalla Fondazione Cariplo per gestire le risorse che essa voleva erogare in contributi medio-piccoli nelle diverse realtà che compongono il proprio territorio di riferimento (l’intera Lombardia più due province del Piemonte). Date l’oggettiva difficoltà a gestire centralmente questa tipologia di contributi, si poneva l’esigenza di darsi uno strumento adeguato. Mentre i grandi progetti possono essere selezionati centralmente in quanto necessitano di competenze specifiche per la loro valutazione e comunque i costi amministrativi incidono relativamente poco su importi molto consistenti, per i piccoli contributi i costi di gestione potrebbero addirittura superare il valore del contributo stesso, il che chiaramente non avrebbe senso. Inoltre, per le erogazioni di modesta entità è molto più efficace un rapporto diretto coi beneficiari, piuttosto che un’analisi formale basata su documenti che troppo spesso risultano astratti e poco adatti a descrivere la vera portata delle singole iniziative. Per questo solo una presenza fisica sui singoli territori permette di erogare in modo efficace.
Dopo un decennio di attività, la Fondazione Cariplo è molto soddisfatta della gestione delle erogazioni territoriali, che, da quando vengono erogate in collaborazione con le fondazioni di comunità, sono molto migliorate, sia in termini qualitativi che quantitativi. Le fondazioni di comunità sono infatti anche in grado di suscitare donazioni di altri donatori e quindi l’erogazione iniziale viene spesso integrata da altri contributi con un impatto molto maggiore di quello che avveniva quando questi contributi venivano gestiti direttamente da Milano.
Quali sono gli elementi fondamentali che stanno alla base di una fondazione di comunità?
Sono tre: il dono; le risorse finanziarie, che sono generate dai doni e servono per finanziare i progetti; il cambiamento sociale, perché l’obiettivo di questi progetti è il miglioramento della comunità.
È chiaro che la presenza di questi tre elementi crea un circolo virtuoso: io dono, questo dono crea risorse finanziarie, queste risorse finanziarie permettono di finanziare progetti, che migliorano la comunità, e quindi, come conseguenza, dono più volentieri.
Grazie proprio alla presenza di questo circolo virtuoso queste fondazioni sono cresciute con dei tassi di crescita elevatissimi. Sono infatti considerate il settore di massimo sviluppo della filantropia a livello mondiale.
Però questi tre elementi possono a volte entrare in conflitto tra di loro. Attraverso il loro approfondimento è quindi possibile cercare di capire quale sia la vera identità di ciascuna fondazione.
Dove trovare fra questi tre principi, la vera motivazione che sta alla base del proprio impegno? Questa è la domanda che chiunque voglia creare una fondazione di comunità si deve porre per operare con efficacia e il suo approfondimento serve proprio a cogliere l’essenza e la specificità dei diversi modelli che si sono sviluppati.
Per conseguire questo obiettivo la modalità più efficace è quella di cercare di capire quale effettivamente sia l’indicatore di successo su cui si basa l’attività di quell’ente. Una volta definito quale sia questo indicatore, diventa più facile capire la logica che sta alla base dell’operatività stessa della fondazione, compresi i suoi rischi e i suoi punti di forza.
Questo indicatore di successo può essere rappresentato dal denaro raccolto e gestito. Per esempio, negli Stati Uniti, fino a poco tempo fa, l’indicatore unanime di successo era dato dal patrimonio. C’è una statistica che fa annualmente la Columbus Foundation e che riassume per ogni fondazione il suo patrimonio, le donazioni raccolte e i contributi erogati. Ad ogni sua uscita tutti non potevano trattenersi dal vedere a che punto stavano in questa classifica. Chi aveva di più, chi aveva di meno, chi aveva raccolto di più, chi meno, perché il principio è: più soldi raccolgo, meglio è.
Tale approccio non è affatto totalmente sbagliato, perché evidentemente più soldi raccolgo, maggiori saranno le mie erogazioni per il bene comune. Ma così facendo finisco per pormi sullo stesso piano degli enti commerciali e non è un caso che in questi ultimi anni le fondazioni di comunità statunitensi siano state poste sotto pressione da parte della concorrenza di importanti istituti finanziari che hanno creato delle loro non profit le quali offrono ai donatori servizi analoghi a quelli delle fondazioni di comunità, ma a costi, di norma, inferiori.
Più recentemente si è sviluppato un dibattito per cui ci si sta chiedendo se tale criterio non sia troppo riduttivo. L’indicatore del successo non deve essere “quanti soldi raccolgo”, ma piuttosto “quale cambiamento sociale è avvenuto grazie all’attività della fondazione”. Si tratta, in altri termini, di concentrarsi sull’impatto della propria attività erogativa. Bisogna perciò definire obiettivi, ideali, valori, e quindi mostrare concretamente come l’attività della fondazione ha permesso a questi principi di radicarsi e svilupparsi nella propria comunità.
Se da un lato questo approccio più sembrare più corretto, in quanto, alla fine, quello che importa non è il denaro accumulato, ma il benessere generato, bisogna però essere consapevoli dei rischi che questa impostazione nasconde. Si rischia infatti di trasformare la fondazione in un soggetto che opera per realizzare un proprio progetto politico con conseguenze negative sia nei rapporti con gli amministratori pubblici, che potrebbero considerare un tale comportamento come un pericolo per la democrazia (con quale diritto un gruppo di persone che non hanno alcuna legittimazione democratica possono influenzare la definizione del bene comune?), sia nei confronti di quelle organizzazioni non profit che, non condividendo il progetto della fondazione, finirebbero per considerarla non più uno strumento al servizio del privato sociale, ma un concorrente nelle attività di raccolta fondi. Naturalmente vi sono casi in cui vi sono obiettivi che sono una priorità comune a tutti, ma nella maggior parte dei casi, è difficile trovare una simile unanimità.
Una via per superare tali incongruenze consiste nel promuovere il dono in quanto tale. Si tratta di aumentare il dono in tutte le sue forme, il dono in denaro, ma anche il dono del proprio tempo attraverso il volontariato e di altre risorse. L’idea che sta alla base di questo approccio è la consapevolezza che non sia compito della fondazione di comunità stabilire quale sia la comunità perfetta o anche più semplicemente la comunità migliore, ma, più umilmente, creare le condizioni affinché ciascuno possa contribuire al bene comune qualunque sia la concreta definizione di quest’ultimo.
La storia del Novecento sembra insegnarci come una simile comunità potrà essere migliore anche della più fantastiche delle utopie, le quali troppo spesso si sono rivelate dei veri e propri inferni. Questo è, a mio parere, al di là delle pur importantissime erogazioni che ogni anno esse fanno a favore di progetti di utilità sociale, il loro vero contributo delle fondazioni di comunità allo sviluppo della nostra civiltà.
Bernardino Casadei
È tendenzialmente un intermediario filantropico.
Un intermediario filantropico è una specie di ponte che si pone fra coloro che hanno risorse finanziarie e vorrebbero fare delle cose belle per la loro comunità da un lato e, dall’altro, le organizzazioni senza finalità di lucro che possono concretamente realizzare queste cose.
Questa è la base per capire cosa sia una fondazione di comunità.
Ma quali sono gli elementi fondamentali della sua struttura?
Innanzitutto è importante che il consiglio di amministrazione di una fondazione di comunità sia un consiglio in grado di riflettere l’intera comunità, di riflettere le diverse aree geografiche presenti in un determinato territorio come anche di riflettere le diverse culture, le diverse categorie economiche e sociali, le diverse entità che vi operano.
Un’altra caratteristica fondamentale è che essa opera in un territorio ben definito. Questo è un elemento che la contraddistingue rispetto ad altre forme di intermediari filantropici. Si tratta di enti generalisti la cui competenza è data dalla conoscenza di una determinata comunità e non dall’approfondimento di determinate tematiche (l’infanzia, la salute, l’ambiente, ecc.).
Essa è inoltre un soggetto indipendente. È molto importante che questa fondazione sia vissuta e pensata come un soggetto indipendente. Essa non deve essere al servizio né di una particolare amministrazione, né di un particolare donatore, né di un particolare gruppo di enti non profit. È un soggetto che è e deve essere indipendente da tutte queste realtà per poter conseguire le proprie finalità.
Cosa fa?
Una delle sue attività principali è quella di accumulare e poi gestire un patrimonio finalizzato a progetti per il bene comune. Questa è l’attività principale di una fondazione di comunità. Per far questo una fondazione di comunità eroga servizi ai donatori, principalmente permettendo loro di costituire fondi con finalità specifiche e assistendoli nel perseguimento dei loro obiettivi filantropici. Donare è infatti più difficile di quanto si possa pensare, dato che non è affatto semplice individuare le soluzioni migliori e gli enti in grado di realizzarle. Ci sono anche molti ostacoli da superare, di tipo burocratico, ad esempio. Bisogna poi avere garanzie su come il proprio contributo verrà utilizzato e confrontarsi con una normativa fiscale non sempre chiara. Sono questi problemi che impediscono a tante persone di donare e quindi di fare qualcosa di bello, di cui essere fieri.
L’idea che sta alla base della filantropia di comunità è che il dono sia qualcosa di cui abbiamo bisogno come persone e che la società in cui viviamo spesso non ci aiuta a sperimentare questa dimensione fondamentale della nostra dignità.
Abbiamo bisogno del dono per stabilire relazioni veramente umane con il nostro prossimo, abbiamo bisogno del dono per dare un senso alla nostra esistenza. E questi sono bisogni ancora più forti dei bisogni primari. Sono dei bisogni molto diffusi, ma a cui la nostra società non sembra in grado di elaborare risposte adeguate. Ebbene se non c’è qualcuno che ci aiuta a vivere questa dimensione, noi rischiamo di non sperimentarla pienamente con effetti negativi per noi stessi e per la comunità in cui viviamo, perché chiaramente una comunità senza dono è una comunità disgregata, è una comunità in cui ognuno è chiuso in sé stesso, atomizzato e quindi, alla fine, privo della sua dignità.
Tendenzialmente queste fondazioni operano principalmente erogando contributi a enti non profit. In alcuni casi gestiscono progetti in proprio. Ad esempio, le fondazioni di comunità tedesche gestiscono abbastanza spesso dei propri progetti. Personalmente, però, sconsiglio questo comportamento. La gestione da parte di una fondazione di propri progetti rischia di avere almeno due conseguenze negative. Innanzitutto gli altri enti non profit possono vedere nella fondazione non più una risorsa, ma un concorrente. Invece di raccogliere risorse per l’intero settore, essa finirà necessariamente per indirizzare le risorse verso i suoi progetti. Rischia perciò di crearsi una situazione di conflittualità con quelli che sono i principali partner delle fondazioni di comunità, ovvero le organizzazioni non profit.
Inoltre questo comportamento potrebbe ostacolare i rapporti coi donatori, dal momento che la gestione diretta di progetti impedisce alla fondazione di presentarsi come un partner neutrale, un soggetto che può dare garanzie, perché non ha interessi propri. La fondazione si troverà invece in un chiaro conflitto di interessi. Se essa non ha propri progetti essa può effettivamente porsi come un soggetto neutrale che può dare quei consigli di cui il donatore ha bisogno per perseguire le proprie finalità filantropiche, in caso contrario diventerà difficile distinguerla dagli altri enti nonprofit.
Infine, grazie alle loro caratteristiche, queste fondazioni possono svolgere altri ruoli che trascendono la loro tradizionale attività di raccolta fondi ed erogazione. Sempre più spesso esse diventano dei motori di sviluppo in quanto sono in grado di catalizzare le energie dei soggetti più diversi e generare quindi delle feconde partnership. Questa capacità di relazionarsi con le varie realtà presenti in ogni comunità è empiricamente dimostrata anche dalle statistiche delle donazioni raccolte da questi enti in Lombardia, dalle quali è possibile rilevare come le donazioni si dividono in parti tendenzialmente uguali tra persone fisiche, società commerciali, enti privati ed enti pubblici.
Questo è un indicatore della loro capacità di porsi come dei ponti, in grado di mettere assieme risorse e competenze diverse e quindi di realizzare progetti che altrimenti non sarebbe stato possibile sviluppare.
Questa capacità di mettere assieme le realtà più diverse dipende naturalmente anche dal loro essere enti erogatori, ossia enti in grado di mettere sul piatto risorse economiche con le quali realizzare le attività che i soggetti coinvolti individueranno come opportune per la crescita della propria comunità.
Alla base del successo della filantropia di comunità è la convinzione che partire dai problemi, i quali sono sempre tanti e sempre superiori alle risorse disponibili, genera necessariamente un sentimento di sconforto. Se, invece di guardare ai problemi, concentriamo la nostra attenzione sulle risorse presenti nella nostra comunità che troppo spesso non vengono pienamente valorizzate, allora non possiamo non scorgere infinite opportunità. In ogni comunità ci sono tantissime energie che spesso vengono sprecate, rimangono inutilizzate o addirittura si trasformano in comportamenti asociali. Piuttosto che piangersi addosso bisogna lavorare per catalizzarle.
Questa è la vera sfida. Se infatti riuscissimo veramente a mettere in circolo tutte queste risorse, probabilmente non solo i problemi sarebbero di meno, ma anche la nostra vita diventerebbe più bella. Questo è qualcosa di esaltante, perché allora non ci sono più i problemi che ci saltano addosso e che ci sommergono, ma delle opportunità che possiamo cogliere.
Questo è un po’ il fondamento stesso della filantropia di comunità e la ragione del suo successo in Italia e nel mondo.
Le fondazioni di comunità sono state sviluppate nella loro forma moderna nell’esperienza anglosassone: sono nate negli Stati Uniti, si sono presto diffuse in Canada, poi sono arrivate nel Regno Unito e solo più recentemente, diciamo negli ultimi 10 anni, hanno iniziato a diffondersi nel resto del mondo. Oggi sono tanti Paesi, anche molto diversi tra loro, in cui queste fondazioni esistono. Paesi così diversi come il Kenia e la Germania, l’India, l’Australia o il Giappone hanno le loro fondazioni di comunità. Ultimamente si stanno diffondendo anche in Brasile e in altri Paesi dell’America latina, realtà in cui, con l’eccezione del Messico, l’idea non sembrava riuscire svilupparsi. Infine sono sorte le prime fondazioni di comunità nei Paesi islamici.
In questo movimento è importante notare come da un punto di vista patrimoniale l’Italia ha già raggiunto il quarto posto, dopo USA in cui le fondazioni di comunità gestiscono oltre 51 miliardi di dollari, il Canada, 2 miliardi e mezzo, il Regno Unito 330 milioni di dollari. Le fondazioni italiane infatti alla fine del 2007 avevano già accumulato un patrimonio di 250 milioni di dollari.
Le fondazioni in Italia sono tutte concentrate nel nord. Già una regione, la Lombardia, è quasi completamente coperta da fondazioni di comunità. Ve ne sono poi in Valle d’Aosta, in Piemonte: le province di Novara e Verbania oltre al quartiere di Mirafiori a Torino, in Liguria: la provincia di Imperia e il ponente savonese, nel Veneto: le province di Vicenza e di Venezia, dove ce ne sono addirittura quattro.
Oggi vi è una speranza concreta che questa tipologia di fondazioni si possa diffondere anche nel resto del Paese. L’esperienza che ci narrerà il dott. Vietri mostra come presto avremo una fondazione di comunità in provincia di Salerno.
Per quel che riguarda il progetto della Fondazione Cariplo, quello che ha introdotto il concetto in Italia, alla fine del 2007 le 15 fondazioni promosse dalla fondazione lombarda avevano accumulato un patrimonio di 171 milioni di euro. Importante notare come nel 2007 siano stati erogati 20 milioni di euro in circa 2000 progetti e soprattutto come in quell’anno siano state raccolte oltre 3.000 donazioni per quasi 11 milioni e mezzo.
Sono questi dati che dimostrano come l’idea funzioni. Si tratta di un risultato molto importante dato che, anche in Fondazione Cariplo, molti erano gli scettici. La si considerava come un’ipotesi impossibile. Tanti dicevano “figuriamoci se la gente dona…”, “è una cosa per americani…”. Questi dati dimostrano invece che di gente disponibile a donare ce ne è più di quello che si pensi. Basta aiutarli a realizzare questi valori, perché sia possibile catalizzare risorse molto importanti e indirizzare verso il bene comune una parte dell’enorme trasferimento intergenerazionale di ricchezza a cui stiamo assistendo.
La ragione principale per cui la gente non dona è che nessuno glielo chiede, cioè che nessuno offre loro opportunità concrete di donare. Ed è evidente che se nessuno glielo chiede non doneranno mai. La presenza concreta di questa infrastruttura è servita a dimostrare in modo concreto che la disponibilità a donare esiste. Ed esiste paradossalmente nelle realtà più povere. Sono proprio le realtà più povere quelle in cui si riesce a raccogliere di più, anche in termini assoluti.
Queste fondazioni sono realtà molto flessibili che possono servire a perseguire una pluralità di obiettivi. Proprio questa flessibilità spiega come esse si siano potuto sviluppare anche in Paesi molto diversi. Naturalmente ciò le ha portate a generare delle proprie peculiarità.
Quando sono nate, l’idea principale era quella di creare il “libretto di risparmio” della comunità. Cioè di creare un patrimonio flessibile che potesse essere utilizzato per affrontare i bisogni nuovi ed emergenti della comunità. Un qualcosa che potesse subito essere mobilitato se c’era qualcosa di nuovo, se c’era una emergenza sociale nuova. Grazie a questo “libretto di risparmio” ogni singola comunità avrebbe potuto prosperare ed affrontare i momenti di difficoltà in modo efficace.
Soprattutto negli ultimi 20 anni questo modello si è evoluto e si è trasformato in una vera e propria banca filantropica, che offre, oltre al “libretto di risparmio”, il conto corrente e tutta una serie di servizi ai donatori, anche molto sofisticati. In questo modo le fondazioni di comunità aiutano i donatori a sfruttare al meglio le loro risorse per perseguire le loro finalità filantropiche.
Nell’Est Europa le fondazioni di comunità sono nate dopo il crollo del Muro di Berlino, e il principale obiettivo era quello di infrastrutturale la società civile, perché in quei Paesi era chiaro che, dopo il regime socialista, non esisteva una vera e propria società civile, in quanto tutti i corpi intermedi erano stati praticamente distrutti. L’obiettivo principale di queste fondazioni è stato quindi quello di creare le condizioni per la rinascita e la riscoperta dei valori della società civile.
Nel Regno Unito sono molto spesso utilizzate dal Governo centrale per erogare contributi di modeste entità principalmente a tutta una serie di soggetti con cui la pubblica amministrazione fa fatica a relazionarsi direttamente, per esempio agli immigrati. Proprio in questi ultimi mesi il governo britannico ha deciso di utilizzare la rete delle Fondazioni di comunità per gestire le risorse che esso intende destinare a favore dell’infanzia abbandonata.
In Irlanda del Nord la locale fondazione di comunità ha svolto un ruolo fondamentale nel superare i conflitti tra cattolici e protestanti. Per lungo tempo ha svolto un ruolo estremamente importante per ricreare la comunità che, come è facile immaginare, era estremamente frantumata da conflitti reali e spesso sanguinosi, gestendo anche le risorse che l’Unione Europea aveva destinato a tale fine.
In Germania le Fondazione di Comunità hanno acquisito un grande ruolo e il sostegno di tutte le autorità pubbliche a cominciare dal Presidente federale, in quanto democratizzano la filantropia. Infatti se un donatore non ha almeno 5 milioni di euro è inutile pensare di costituire una fondazione, in quanto si trasformerebbe presto in una manomorta. Dato che le persone che hanno almeno 5 milioni di euro per crearsi una fondazione sono poche, per molto tempo la filantropia è stata vissuta come qualcosa che poteva interessare esclusivamente pochi ricchi.
Le fondazioni di comunità, al contrario, permettono, anche a chi ha mezzi molto modesti, ma vuole contribuire al bene comune, di crearsi un proprio fondo e utilizzare la fondazione stessa per gestire in modo professionale ed efficace le proprie attività filantropiche.
È anche possibile creare dei fondi d’erogazione, ossia dei fondi da cui far transitare la propria attività di beneficenza annuale, opportunità che non necessità di alcun capitale e di cui io stesso ho approfittato.
In Italia le fondazioni di comunità sono state utilizzate principalmente dalla Fondazione Cariplo per gestire le risorse che essa voleva erogare in contributi medio-piccoli nelle diverse realtà che compongono il proprio territorio di riferimento (l’intera Lombardia più due province del Piemonte). Date l’oggettiva difficoltà a gestire centralmente questa tipologia di contributi, si poneva l’esigenza di darsi uno strumento adeguato. Mentre i grandi progetti possono essere selezionati centralmente in quanto necessitano di competenze specifiche per la loro valutazione e comunque i costi amministrativi incidono relativamente poco su importi molto consistenti, per i piccoli contributi i costi di gestione potrebbero addirittura superare il valore del contributo stesso, il che chiaramente non avrebbe senso. Inoltre, per le erogazioni di modesta entità è molto più efficace un rapporto diretto coi beneficiari, piuttosto che un’analisi formale basata su documenti che troppo spesso risultano astratti e poco adatti a descrivere la vera portata delle singole iniziative. Per questo solo una presenza fisica sui singoli territori permette di erogare in modo efficace.
Dopo un decennio di attività, la Fondazione Cariplo è molto soddisfatta della gestione delle erogazioni territoriali, che, da quando vengono erogate in collaborazione con le fondazioni di comunità, sono molto migliorate, sia in termini qualitativi che quantitativi. Le fondazioni di comunità sono infatti anche in grado di suscitare donazioni di altri donatori e quindi l’erogazione iniziale viene spesso integrata da altri contributi con un impatto molto maggiore di quello che avveniva quando questi contributi venivano gestiti direttamente da Milano.
Quali sono gli elementi fondamentali che stanno alla base di una fondazione di comunità?
Sono tre: il dono; le risorse finanziarie, che sono generate dai doni e servono per finanziare i progetti; il cambiamento sociale, perché l’obiettivo di questi progetti è il miglioramento della comunità.
È chiaro che la presenza di questi tre elementi crea un circolo virtuoso: io dono, questo dono crea risorse finanziarie, queste risorse finanziarie permettono di finanziare progetti, che migliorano la comunità, e quindi, come conseguenza, dono più volentieri.
Grazie proprio alla presenza di questo circolo virtuoso queste fondazioni sono cresciute con dei tassi di crescita elevatissimi. Sono infatti considerate il settore di massimo sviluppo della filantropia a livello mondiale.
Però questi tre elementi possono a volte entrare in conflitto tra di loro. Attraverso il loro approfondimento è quindi possibile cercare di capire quale sia la vera identità di ciascuna fondazione.
Dove trovare fra questi tre principi, la vera motivazione che sta alla base del proprio impegno? Questa è la domanda che chiunque voglia creare una fondazione di comunità si deve porre per operare con efficacia e il suo approfondimento serve proprio a cogliere l’essenza e la specificità dei diversi modelli che si sono sviluppati.
Per conseguire questo obiettivo la modalità più efficace è quella di cercare di capire quale effettivamente sia l’indicatore di successo su cui si basa l’attività di quell’ente. Una volta definito quale sia questo indicatore, diventa più facile capire la logica che sta alla base dell’operatività stessa della fondazione, compresi i suoi rischi e i suoi punti di forza.
Questo indicatore di successo può essere rappresentato dal denaro raccolto e gestito. Per esempio, negli Stati Uniti, fino a poco tempo fa, l’indicatore unanime di successo era dato dal patrimonio. C’è una statistica che fa annualmente la Columbus Foundation e che riassume per ogni fondazione il suo patrimonio, le donazioni raccolte e i contributi erogati. Ad ogni sua uscita tutti non potevano trattenersi dal vedere a che punto stavano in questa classifica. Chi aveva di più, chi aveva di meno, chi aveva raccolto di più, chi meno, perché il principio è: più soldi raccolgo, meglio è.
Tale approccio non è affatto totalmente sbagliato, perché evidentemente più soldi raccolgo, maggiori saranno le mie erogazioni per il bene comune. Ma così facendo finisco per pormi sullo stesso piano degli enti commerciali e non è un caso che in questi ultimi anni le fondazioni di comunità statunitensi siano state poste sotto pressione da parte della concorrenza di importanti istituti finanziari che hanno creato delle loro non profit le quali offrono ai donatori servizi analoghi a quelli delle fondazioni di comunità, ma a costi, di norma, inferiori.
Più recentemente si è sviluppato un dibattito per cui ci si sta chiedendo se tale criterio non sia troppo riduttivo. L’indicatore del successo non deve essere “quanti soldi raccolgo”, ma piuttosto “quale cambiamento sociale è avvenuto grazie all’attività della fondazione”. Si tratta, in altri termini, di concentrarsi sull’impatto della propria attività erogativa. Bisogna perciò definire obiettivi, ideali, valori, e quindi mostrare concretamente come l’attività della fondazione ha permesso a questi principi di radicarsi e svilupparsi nella propria comunità.
Se da un lato questo approccio più sembrare più corretto, in quanto, alla fine, quello che importa non è il denaro accumulato, ma il benessere generato, bisogna però essere consapevoli dei rischi che questa impostazione nasconde. Si rischia infatti di trasformare la fondazione in un soggetto che opera per realizzare un proprio progetto politico con conseguenze negative sia nei rapporti con gli amministratori pubblici, che potrebbero considerare un tale comportamento come un pericolo per la democrazia (con quale diritto un gruppo di persone che non hanno alcuna legittimazione democratica possono influenzare la definizione del bene comune?), sia nei confronti di quelle organizzazioni non profit che, non condividendo il progetto della fondazione, finirebbero per considerarla non più uno strumento al servizio del privato sociale, ma un concorrente nelle attività di raccolta fondi. Naturalmente vi sono casi in cui vi sono obiettivi che sono una priorità comune a tutti, ma nella maggior parte dei casi, è difficile trovare una simile unanimità.
Una via per superare tali incongruenze consiste nel promuovere il dono in quanto tale. Si tratta di aumentare il dono in tutte le sue forme, il dono in denaro, ma anche il dono del proprio tempo attraverso il volontariato e di altre risorse. L’idea che sta alla base di questo approccio è la consapevolezza che non sia compito della fondazione di comunità stabilire quale sia la comunità perfetta o anche più semplicemente la comunità migliore, ma, più umilmente, creare le condizioni affinché ciascuno possa contribuire al bene comune qualunque sia la concreta definizione di quest’ultimo.
La storia del Novecento sembra insegnarci come una simile comunità potrà essere migliore anche della più fantastiche delle utopie, le quali troppo spesso si sono rivelate dei veri e propri inferni. Questo è, a mio parere, al di là delle pur importantissime erogazioni che ogni anno esse fanno a favore di progetti di utilità sociale, il loro vero contributo delle fondazioni di comunità allo sviluppo della nostra civiltà.
Bernardino Casadei
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